Me ne vado, da Tokyo, con questa visione negli occhi, fissata poco prima che il grattacielo di fianco si svuotasse, alle sei e pochi minuti.
Me ne vado che qualcosa ho capito, anche se.
Tokyo sono centouno sipari che si aprono e tu ci passi attraverso mentre salgono, in sequenza, e spariscono man mano dentro al soffitto, ma ce n'è un altro dopo, di sipario, che ne scopre un altro e, così, finisci sempre a stupirti di quel che appare dopo il sipario successivo.
Stavamo in un café, a riprenderci dal caldo asfissiante della giornata iniziata presto. Tokyo d'estate è umida e caldissima. Poi, la sera, in questo periodo, le cose tornano in una qualche norma, sarà forse che, in fondo, è una città di mare, anche se non si sente. Stavamo in un café di Shinjuku.
Che, a me, Murakami Haruki, quest'effetto mi fa: inizio un libro, con disinvoltura, ma poi, dagli tempo tre capitoli, e io comincio a fare sogni strani, ad addormentarmi con la consapevolezza che il libro verrà a visitarmi la notte. Che, io, lo so che la Tokyo di Murakami non esiste: è tutto un sogno, descritto con un'attenzione da renderlo vero, è sempre un lavoro duro di ri-scrittura.
Però, mentre leggevo, pensavo che a me sarebbe piaciuto mettere piede, in quella città, e guardare i palazzi come li guarda il protagonista. Anche se so che non sono gli stessi palazzi. E stare seduto per mezz'ora in un café di Shinjuku, anche se so che non è quel café.
Poi ci siamo alzati, avevamo già pagato, siamo usciti, e abbiamo camminato fino alla stazione di Shinjuku: eravamo in un fiume di persone, come uno stormo di stormi, sui marciapiedi. Gli abbiamo girato intorno, alla stazione, poi abbiamo preso le scale, quelle dell'uscita numero 3, e siamo scesi e ci siamo immersi, ci siamo fatti trascinare dalla corrente.
Siamo scomparsi in uno dei tanti piani, della stazione, in cui si svolge la storia.
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