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Pubblicato il 11 novembre 2016

Leonard Cohen

Ehi, questo post è un contenuto vintage. Risale a più di 7 anni fa: può contenere informazioni errate e non attuali.

In vita mia mi sono innamorato musicalmente due volte. Certo, a dir la verità ho avuto un sacco di storie — due esempi, ma potrei farne tanti: vado in astinenza se non ascolto per troppo tempo La Domenica delle Salme, comincio a sentirmi strano quando periodicamente non mi perdo dietro alle mongolfiere di Gianmaria Testa.

Però mi sono innamorato solo due volte (e a me sembra di essere già molto fortunato).

Mi sono innamorato di Paolo Conte verso i 18 anni. Un pomeriggio di autunno o di primavera, spiegavo matematica a Cecilia e la stanza era piena di luce. Lei cercava scuse per evitare la matematica: accende lo stereo, prende una cassetta e schiaccia play. Dalle casse salta fuori una voce che per me è un fulmine a ciel sereno. Non avevo mai sentito niente del genere. Gelato al limon è la prima canzone di Paolo Conte che ho ascoltato.

Molto tempo dopo, ho incrociato Leonard Cohen.

There is a crack, a crack in everything a That's how the light gets in.

La prima volta che ho ascoltato Anthem, dentro di me, si sono spalancate migliaia di persiane su migliaia di finestre illuminate, con tutto il rumore che fanno quando sbattono per il vento e le tende svolazzanti; centinaia di serrande hanno cominciato ad alzarsi e io non ho più smesso di ascoltare Cohen.

Resta la mia musica totemica, quella a cui tornare quando nessun’altra funziona.

Cohen sul palco era un’esperienza: prendi Tower of song da Live in Dublin e Live in London e vedi cosa combina. Come gioca sapiente con il pubblico, come si prende in giro e con quanta cura offre la canzone, attraverso un’ironia che a me ha sempre saputo di saggezza.

E quando si inginocchiava sul palco. Si inginocchiava per la musica, per la canzone: pieno di dignita, si inginocchiava in onore di tutto.

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Racconto

15 ottobre 2017

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